V

Dal «Commento» ai «Sepolcri»

Nel giugno del 1804 il Foscolo partiva per la Francia dove sarebbe rimasto sino al marzo 1806. Periodo di amarezza: anzitutto la delusione di una speranza di attività militare e onorevole cambiata nella realtà fastidiosa di una vita di depositi di reclute e di malati a Valenciennes (luglio-agosto 1804), a Calais (settembre-ottobre 1805), di nuovo a Valenciennes (fino a tutto febbraio 1805), a Lille in marzo, ancora a Calais, e a Boulogne dove rimase sino al marzo 1806. Anni che rivivono negli accenni delle Notizie di Didimo Chierico, il cui ideale paesaggio è appunto tra le Fiandre, Dunkerque, Calais, Boulogne-sur-Mer, negli accampamenti militari («da Ostenda a Montreuil») fra i soldati «a cui diceva certe sue omelie all’improvviso, pigliando per testo de’ versi delle Epistole di Orazio difendendo i militari[1] o scrivendo...».

Anni di meditazione e di studio (Shakespeare, Sterne, Orazio, Omero) e insieme di amori (quello per Fanny Emerytt da cui ebbe Floriana, quello per Sophie Pétiet sotto l’amichevole protezione della Bagien – quasi riproduzione meno intensa della vicenda Roncioni-Nencini) la cui eco di soavità e di piccolo intrigo torna nell’Epistolario e pare agevolare e confortare la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick dello Sterne, il massimo documento dell’attività letteraria di quegli anni.

Gli accenni alla ignota «little ennemy» con le delicate variazioni letterarie su versi shakespeariani fra inglese e francese (compassione, sventure) o quelli piú teneri alla Pétiet («le ciel ne l’avait donnée à la terre pour moi. – Elle n’était pas pour moi. Ni les hommes ni la fortune – ni elle-même. Je vis pour elle et avec elle dans toute ma pensée. Et s’il y a quelque mélodie dans mon âme, c’est son souvenir qui la réveille – elle ne sera jamais pour moi – le ciel l’a envouée sur la terre peut-être pour consoler les mortels; je l’ai rencontrée, et j’ai pris ma part de consolation – j’en ai pris trop peut-être – et les larmes de mes yeux qui cherchent en vain autour de moi en sont ma peine – je le mérite» (a M. Guibourg in Chiarini, op. cit., pp. 101-102) intorno al tema della consolazione, del ricordo, della melodia intima, si intrecciano, nella mediazione di una religione indiretta, al lavoro della traduzione di Sterne di cui queste lettere parlano, legandola a questo clima soave, poco drammatico, ed alle vicende francesi già riviste con distacco in un nuovo autoritratto che si preciserà piú tardi nel periodo fiorentino nella zona delle Grazie («j’ai achevé Sterne – dice in una lettera del 25 ottobre 1805, op. cit., p. 95 –; maintenant j’y fais notes; j’ècris les folies, les espérances, les opinions, les erreurs, les souvenirs, les remarques de M. Foscolo en France» e ancora «et pour m’égayer, examinant mes folies et les faiblesses de mes amis, j’ai fait des notes moins élegantes, et moins fines, mais bien plus drôles que le texte»; lettera dei primi del 1806, Chiarini, p. 96).

Fra galanteria, relazioni amorose e dolcemente affettuose, e contemplazione attenta e sorridente del proprio animo nei suoi elementi sostanziali e nel suo muoversi irrequieto (l’animo dei grandi sonetti e dell’Ortis rivisto ancora sotto un angolo di visuale piú sottile e ironico), il Foscolo aveva trovato, in quegli anni poco movimentati, una nuova misura delle proprie possibilità di analisi e di espressione e, se i classici avevano appoggiato la sua ricerca di classicismo romantico e la sua posizione di eloquenza lirica che trova la massima applicazione nei Sepolcri prima di affinarsi nella premessa delle Grazie, lo scrittore inglese (e i suggerimenti del francese-inglese delle conversazioni galanti) serví a confortare i fermenti già notati nel Carteggio per una prosa non ortisiana (e c’erano le pagine padovane e piú in alto le due Odi e il Carteggio) che sarà indispensabile presupposto delle Grazie e che aiuta a capire le inflessioni particolari delle poche prove poetiche di questi anni prima e intorno ai Sepolcri: e del resto certe finezze dei Sepolcri nascono sí dal lavorio della Chioma e delle sue traduzioni ed esercizi, ma risentono della traduzione sterniana: nelle pieghe del Carme certe mosse di ironia piú lieve, certi particolari delle figure e dei versi; ma naturalmente ben poco di fronte a quello che la traduzione sterniana e le pagine aggiunte di Didimo significano nelle Grazie.

Attento soprattutto allo svolgimento della poetica foscoliana in direzione della sua opera lirica, non posso dare che minimi cenni circa la traduzione sterniana, indicando la sua estrema importanza e l’arricchimento e la precisazione che ne vengono all’animo e all’arte del Foscolo.

Anche per questo si può ben dire che le Grazie nascono dal lavoro piú interno e sottile del Foscolo intorno a quel nuovo ritratto e schermo che è Didimo, piú misurato di Jacopo, ma insieme secondo le parole del Foscolo stesso quasi «uno Iacopo piú disingannato che rinsavito» e quindi pronto a far fremere nelle pieghe della sua maggiore misura l’antica drammaticità mai del tutto domata[2].

Se la figurazione di un nuovo ritratto piú segreto, piú elusivo, piú sfaccettato e labile è essenziale per lo svolgimento foscoliano, per il crescere del suo animo al di là dell’Ortis, e lo stesso Didimo Chierico è in svolgimento dalla traduzione fino alle Lettere dall’Inghilterra, la traduzione sterniana, mentre smorza le violenze romantiche del primo Foscolo, arricchisce anche di un sapore moderno il classicismo della Chioma, sensibilizza ed amplia il «passionato» di quella e, mentre avvia il Foscolo ad una prosa[3] che tenterà fino all’ultimo, prepara in genere le ricerche foscoliane e le sfumature della sua poesia piú tarda.

Nella collaborazione geniale e spirituale fra Sterne e Foscolo, la traduzione assicura una ricerca non d’impeti, ma di pause, di proposizioni incidentali, di giri fra meditativi e sorridenti (sorriso tenue e tenui lacrime a cui Foscolo accentuò il substrato malinconico, il valore della tenerezza e del rimpianto: «era opinione di L. Sterne ..., che un sorriso possa aggiungere un filo alla trama brevissima della vita», «ma pare ch’egli inoltre sapeva che ogni lagrima insegna ai mortali una verità», dirà il Foscolo nell’introduzione del 1813, Prose, ed. Cian, III, p. 3) sul nesso labile e saldo «difficile e dissimulato» e nello stesso tempo continuo e stretto: una ricerca di «calore di fiamma lontana» che nell’alleggerimento e assottigliamento della tensione ortisiana e poi della ricchezza dei Sepolcri giungerà all’impalpabile fluidità delle Grazie.

È questo il punto piú interessante per noi: la traduzione sterniana frutterà in direzione di una nuova prosa, ma frutterà anche, in convergenza con le traduzioni omeriche e nel pieno dello svolgimento poetico foscoliano, nelle Grazie[4].

Nella tipica spirale foscoliana il momento sterniano è dunque un anticipo e piú conta per le Grazie che per i Sepolcri e piuttosto vicini a questi, e mediante solo in parte la novità della traduzione e del tipo didimeo, si presentano l’Epistola al Monti, il Primo Sermone, l’Inno alla Nave delle Muse piú adatti a colmare il passaggio fra Chioma e Sepolcri nel clima del soggiorno francese.

L’epistola al Monti è anzitutto interessante esternamente per l’adesione foscoliana a questo “genere” che sul côté neoclassico (dopo le innumerevoli prove del Settecento illuministico e «versiscioltaio») rappresentava la misura media (cosí cara al Pindemonte) di una espressione fra lirica e discorsiva, capace di diversi toni unificati nel calore affettuoso del riferimento ad una persona amica (ed una sfumatura epistolare non manca nei Sepolcri, specie all’inizio). Ma piú ci interessa naturalmente per il singolare incontro in questo tono medio e discorsivo di punte piú liriche ed eloquenti (quasi ritmo di mosse sonettistiche) e di minuti movimenti ironici e ironicamente amari che bene si ricollegano al ritratto in formazione di Didimo traduttore e ad accenni già vivi fra Ortis e Chioma. Ed è certo didimeo il fondo dell’epistola che giuoca sulla affermazione e sulla smentita della sentenza pessimistica «Amico unico è l’oro» e sul contrasto fra il piccolo numero di coloro che possono chiedere notizie di Ugo, la loro sostanziale indifferenza ed il loro naturale egoismo, per cui il ritratto del poeta deve essere presentato a seconda della loro indole, e la posizione del Monti, vero amico a cui si dovrebbe rivelare la vera situazione spirituale del poeta.

Ma poi in realtà anche al Monti nulla di essenziale viene rivelato e il ritratto del poeta rimane ambiguo fra letizia e dolore mentre se ne danno caratteri piú esterni e la sua immagine guerriera che si staglia potente e fantastica su di uno sfondo vivo e sobrio fra descrizione e rappresentazione e non priva di ironia (Ugo-Chisciotte):

in terra che non apre il seno

obbedïente al scintillar del sole

passa la vita sua colma di obblio:

doma il destriero a galoppar per l’onde

sulle rocce piccarde aguzza il brando,

e l’Oceàn traversando con gl’occhi,

d’Anglia le minacciate alpi saluta.

L’intonazione “oraziana” (Didimo dice che «peregrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti italiani; ed ai militari, che si dilettavano di ascoltarlo, diceva certe sue omelie all’improvviso, pigliando sempre per testo dei versi delle Epistole d’Orazio» – Opere, II, pp. 636-637)[5] è usufruita per il suo fare dimesso ed elegante che autorizza e media ciò che vi è di piú nuovo nell’animo foscoliano in questo periodo di formazione didimea e di distacco dalla gioventú, con ripresa di toni di quella come momenti funzionali e dialettici in una situazione spirituale complessa e matura: cosí qui l’ironia saggia e la lieve amarezza sorridente, che oscilla sino ad abbandoni virili che la prosa didimea verrà piú sicuramente dominando e mediando, insita già nell’inizio

(Se fra’ pochi mortali a cui negli anni

che mi fuggir fui caro, alcun ti chiede

novella d’Ugo; perché indegno fora

all’amor nostro il non saperne, o Monti

rispondi...)

e sviluppata poi nei versi centrali

(M’udrai felice benedir, m’udrai

commiserar; tu fammi lieto a’ lieti,

dolente a’ dolorosi. Ognun si pasce

del parer suo...),

corrisponde ad una situazione di delusione, di amarezza e di drammaticità superata fra desiderio di azione e bisogno di affetto, ma senza urgenza e senza sicurezza di sfogo, tanto che anche la confessione o pseudo-confessione della sua vita bisognosa di affetto si scioglie limpida e sinuosa, senza l’antica violenza ridotta qui a movimento intimo e dominato:

ma cor che il fuggitivo Ugo accompagni

ove fortuna il mena aspra di guai.

C’è un’eco dei sonetti (come può esservi degli altri accenni di autoritratto, ma piú sulla direzione di descrizione attenta dei rifacimenti del sonetto-autoritratto – «perch’io cultor di pochi libri vivo»), ma quanto divenuta diversa non attraverso il lavoro dei grandi sonetti, ma nella loro maturazione spirituale e in questa intonazione di «epistola» in cui il sapore aspro del motivo che accompagna Ugo dalla fanciullezza («i miei giorni perseguitati ed afflitti») è diventato sempre piú funzionale ad una rappresentazione di sé elusiva e complessa ad un ritmo vario non piú fra tensione esterna e languore, ma fra immagine di dolore e di saggezza, precoce anticipo del piú unitario legame animo-poeta delle Grazie.

In tal senso l’epistola a Vincenzo Monti, che vive soprattutto per la rappresentazione vivissima del cavaliere fra rocce piccarde e Oceano e le coste inglesi, rappresenta però non solo, come dice il Citanna, «un’altra delle poesie piú sincere e rivelatrici dei migliori sentimenti del Foscolo» (op. cit., p. 76) – quando ci si intenda su questa sincerità didimea –, ma proprio una prima traduzione poetica del sentimento didimeo che tanta importanza avrà per le Grazie e che qui serve bene a mediare nell’andamento epistolare toni diversi (nostalgia, irrequietezza, ironia, sottile sdegno, amarezza, affettuosità): la traduzione di Sterne piú che la lettura di Orazio (anche se sempre un classico è pronto a coprire l’influsso di un moderno straniero e a mescolare la propria esemplare e tradizionale misura a quella piú nuova) sta già dando i suoi primi frutti e il dominio del proprio animo drammatico ottenuto nei sonetti e nella grande ode, sottinteso nell’operazione artistica preposta nella Chioma, qui è accentuato (e gli attacchi piú chiari erano nel Carteggio Arese) in complessità, ricchezza di toni in cui la ricchezza sostanziale dell’animo si può espandere e come rifrangere sfuggendo la concentrazione violenta, l’effusione periferica, ed usufruendo in un piano piú largo e meno intenso.

Il Foscolo qui si rifà piú vario e ricco e su questa base di tono medio – accanto alla versione sterniana – si prepara ad opere meno facilmente autobiografiche, ad inni e carmi.

Anche il Sermone primo all’inizio di un’attività satirica che si prolunga negli anni successivi ai Sepolcri, legato all’Epistola nell’insegnamento oraziano («il pedestre Fauno»), ha la sua importanza nel periodo di elaborazione dei Sepolcri indicando i fermenti di satira e i legami alla storia contemporanea proprio sul motivo etico-politico che nel carme vive in proporzioni cosí rilevanti e senza la prudenza tanto accentuata da essere praticamente piú che sospetta (il riserbo ostile a Napoleone mantenuto per non subire gravi conseguenze).

A parte le allusioni piú oscure (il Foscolo nella lettera dal 30 gennaio 1808 al Bottelli, che aveva tradotto il sermone in latino, per spiegare alcuni errori dell’amico accusa sé si essere «sfinge» e «tenebroso per troppa libidine di brevità e di profondità»), il Sermone è molto notevole proprio in relazione ai versi che accusano «il bello italo regno» in raccordo con l’attività politico-oratoria del periodo 1801 con l’Orazione a Napoleone per il Congresso di Lione la cui impostazione audace e “machiavellica” (e che importanza avrà avuto la permanenza in Francia, la conoscenza di prigionieri inglesi e di giornali e scritti inglesi?) è riassunta (e il succo della dedica nuova dell’ode) nell’inizio:

Pur minacciavi: all’imminente danno,

orator del Congresso, or piú non guardi?

In te la patria o l’eloquenza dorme.

L’eloquenza non so: m’è il cor maestro;

ma del presente io gemo, e nel futuro

vivo talor: perch’io mi taccia, ascolta.

È la base sentimentale di un motivo essenziale dei Sepolcri, ma il Foscolo qui si mantiene, prima dei Sepolcri, in un tono medio, discorsivo ed allusivo non solo per ragioni pratiche, ma proprio per una delle direzioni caratteristiche del suo spirito quando non si alza ad espressione lirica e d’altra parte quando ha abbandonato il surrogato di una drammatica eloquenza. Questo dire e non dire, questo compiacersi di enigmi, sul cui carattere oscuro egli stesso quasi sorridendo insiste, questo gusto di ambagi intellettuali ed espressive è tipico del Foscolo di questo periodo ed il Sermone ne è un documento di estremo interesse: preparazione in tono oraziano-sterniano di motivi e persino di accordi poetici che trionfalmente vengono ad imporsi nel Carme.

Cosí in questo sermone, in cui sostanzialmente in un mito rinnovato (Prometeo consegnato al rostro dell’aquila perché indiscreto ammonitore degli Dei, e qui ben si vede quell’operazione di rinnovamento dei miti che trionferà nelle Grazie) si accenna al governo napoleonico benefico finché è mite, pericoloso quando è dispotico, oltre alla descrizione della vita familiare a cui si deve la reticenza foscoliana

(ch’or mi torrebbe al mio fratello, inerme

d’anni virili, e a lei che nel suo grembo

scaldò l’ingegno mio, sicché la fredda

povertà non l’avvinse: oggi canuta,

e sull’avello de’ congiunti assisa,

del latte che mi porse aspetta il frutto);

vivono in una intonazione blanda, poco tesa movimenti indispensabili alla vita superiore dei Sepolcri, immagini della necessità della trasformazione naturale (vv. 61 ss. e 74 ss.), della unità della natura e degli uomini (vv. 52-53), di una scena alta di inaridimento della vita sulla terra tutta piena di immagini e parole sepolcriane.

Una grandiosa scena cosmica, che qua e là tocca il ritmo solenne sepolcriano, fra armonia e desolazione, e si costruisce (con particolari che a volte in un verso fan sentire la vicinanza dei Sepolcri, il modulo dei loro versi – «l’etere rapidissimi volando» che richiama «d’un velo candidissimo adornando») in un ritmo piú piano e con compromessi di frasi piú dimesse e prosastiche, rappresenta il punto alto del sermone e mostra come i Sepolcri siano nati in un clima generale, dentro un lavorio del poeta fra Sermone, Epistola, Inno alla Nave delle Muse, che usufruivano dell’atteggiamento didimeo (Sterne ed Orazio poco amato come campione di lirica) e mediavano in una poesia meno impegnata nuovi sentimenti in cui l’impeto ispirativo dei Sepolcri viene a portare un’accensione nuova.

Accanto all’Epistola e al Sermone van calcolati i primi esempi di “inni” che derivano la loro origine dal Commento alla Chioma di Berenice e che esprimono il bisogno di alta lirica che il Foscolo sentí già prima dei Sepolcri in un periodo di preparazione e di confusa conversione alla poesia fra discorsività poetica e piú decisa posizione di alta lirica: appunto fra Sermone ed Epistola e nuovi inni.

Il primo esempio di tale volontà, non realizzata, è l’abbozzo di un inno All’Oceano frutto del soggiorno francese e di cui ancor parlava come in programma nella lettera al Monti del 18 dicembre 1808, quando parlava dei suoi abbozzi e delle sue intenzioni («All’Oceano, sulle conquiste marittime e sul commercio»). Un poema storico-didascalico di cui rimane un abbozzo in prosa fra autobiografia (Didimo al di sopra di Ortis) e spunti poetici sul motivo del mare nella sua grandiosa suggestione di eternità (il tema di Alla sera piú esteriorizzato) e sul tema dell’immaginazione capace di unire storia passata e storia presente, motivo necessario dei Sepolcri.

Io nato in Grecia piena di avventure; e condotto in Egitto e in Atene – ora dal fato medesimo mi veggo esiliato – Boulogne...

Io parlo a te Padre Oceano, io t’ho ammirato percorrendo l’onda di Teti e i tuoi figliuoli minori quando io andava da fanciullo a Venezia ad imparare la divina lingua italiana; io t’ho veduto nell’Ionio e nell’Adriatico, e nel Mediterraneo allorché –

Ma né oggi posso scorrere i tuoi vasti campi, ed ivi io vedrei il nuovo mondo ed il continente che tu bagni; perché la guerra...

Alta è la mente mia padre Oceano; posso contemplare le stelle e percorrer con l’immaginazione i tuoi vasti mari, e immaginar co’ filosofi la diva natura, ma l’intelletto è imprigionato nel corpo il quale è servo degli uomini.

Or che io qui parlo niuno può tormi i miei vasti pensieri da questa città e questi campi.

Di qui non vedo né la tomba d’Ajace né di Achille: non le memorie del passato d’uomini e di cose! non la guerra che spaventa i mortali ma l’eternità e lo abisso in cui ti riempi...

L’Inno alla Nave delle Muse (che egli inviò come frammento tratto «da un carme lirico intitolato Alceo» allo Zambelli insieme alla prima copia dei Sepolcri – dunque composto verosimilmente nel 1806) riprende piú direttamente il tipo di poesia indicata nei frammenti del 1803 (Chioma di Berenice) ed i principi poetici della poesia alta, lirica («carme lirico») tutta basata sulla mitologia greca (come capace di «mirabile») e soprattutto sulla mitologia-religione omerica: quella direzione che pure avvicinandosi di piú a tanto neoclassicismo sembrò al Foscolo la piú originale, quella a cui pensò per anni ed anni trovandone infine l’adeguata intonazione nelle Grazie.

L’Inno alla Nave delle Muse in cui torna un motivo della poesia foscoliana (il passaggio delle Muse greche in Italia[6] e della tradizione italo-greca, rinascimentale-neoclassica) risente della tendenza foscoliana verso una poesia altamente didascalica in cui si risolvano idee critico-storiche in una espressione alta, sublime, greca (doveva essere un frammento di un poema Alceo o la storia della letteratura Italiana dalla rovina dell’impero di oriente ai dí nostri) che riprende con piú vigore e piú ampiezza il tipo di poesia dei frammenti alle Grazie in una zona ancora di alto esercizio neoclassico: la figura di Alceo che dal monte Athos guarda la nave delle Muse che dalla Grecia invasa passa alla Toscana ha una grandiosità efficace, ma piú bella la descrizione-inno iniziale del passaggio della nave delle Muse davanti all’isola di Delo e della sacra libagione in suo onore: alta invocazione-evocazione che diverrà tipica di tanta poesia delle Grazie senza aver piú la profondità intima del simile procedimento dei grandi sonetti:

Amor di Febo e de’ Celesti è Delo.

Immota, veneranda ed immortale,

ricca fra tutte quante isole siede

e le sorelle a lei fanno corona.

I doni di Lieo nell’auree tazze

d’alloro inghirlandate, o naviganti,

adorando: e libatili dall’alta

poppa in onor della palmosa Delo.

Invocazioni alte, evocazioni di visioni mobili e musicali di finezza poetica, ma riferimento incerto ad un nucleo ispirativo sicuro. Ben altra è l’“attrazione” dei “frammenti” delle Grazie ad un centro d’ispirazione e ad un senso complessivo della vita.

Si può quasi affermare che la mancanza dei Sepolcri (l’assurda storia dei se) e una precoce concretizzazione di questi “carmi” avrebbe accentuato il lato piú illustrativo e descrittivo: i Sepolcri ritardarono e offrirono nella loro splendente realtà poetica anche un nutrimento sanguigno e una ricchezza da assimilare e superare in maggiore purezza.


1 Ci rimane la difesa del sergente Armani, in cui colpisce la trasfigurazione del sergente in un giovane cosí simile a Jacopo, al fratello Giovanni, al Foscolo a cui lo avvicinano le parole tante volte adoperate dal Foscolo «stanco da lungo tempo dalle tempeste d’una esistenza afflitta e perseguitata» (Prose, III, p. 194).

2 «I due personaggi di Iacopo Ortis e di Didimo Chierico sono stati complementari nella vita di lui: Didimo Chierico ha impedito che l’animo di Ugo Foscolo si logorasse e si bruciasse nel personaggio di Iacopo Ortis» (Varese, Vita interna del Foscolo, Bologna 1942).

3 «Con Didimo il Foscolo è venuto cosí acquistando la capacità tutta interiore della prosa: un’analisi piú minuta, un’attenzione piú umile e piú carezzevole per le cose che circondano l’esistenza degli uomini, con sfumature di sorriso» (Varese, Linguaggio foscoliano e linguaggio sterniano, Firenze 1947, p. 21).

4 Il migliore studio su questa traduzione e sui rapporti Sterne-Foscolo nel campo essenziale del linguaggio, quello citato del Varese, non fa che qualche cenno a questo sfociare dell’esperienza sterniana e dell’atteggiamento didimeo nelle Grazie e, mentre insiste sul piú evidente cammino della prosa e sull’esemplarità del ritratto didimeo, non affronta questa relazione piú delicata e piú difficile. «Non è sterniana quella dolcezza del dolore e della gioia, quella mescolanza di sorriso e di sospiro che appare sul labbro delle Grazie? “E il sorriso e il sospiro errin sul labbro / delle Grazie, e a chi son fauste e presenti / dolce in core ei s’allegri e dolce gema”».

5 E qui in particolare si risente di Orazio la III del I per il tema della lontananza.

6 «Que’ Greci rifuggiti dopo il XIV secolo a’ Veneti ed a’ Toscani, portarono agli avi nostri le greche Muse e li armarono contro alla signoria degli scolastici» (Chioma, Opere, I, p. 259). V. Grazie, II, vv. 264 ss.